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21 Settembre 2020

Lo stato del riuso in Italia: intervista ad Alessandro Stillo, presidente di rete ONU

 

La situazione del riuso e dell’usato in Italia, le criticità ai tempi del COVID, le prospettive e le necessità urgenti di regolamentazione nell’intervista con Alessandro Stillo, presidente di Rete ONU (Rete Nazionale Operatori dell’Usato).

 

Cosa è Rete ONU? A che bisogno risponde la vostra rete? 

 

La Rete Nazionale Operatori dell’Usato (Rete ONU) è la più grande e rappresentativa associazione di categoria del settore dell’usato. Il suo statuto prevede che ogni macro-segmento del settore del second hand abbia un proprio comparto di riferimento, e che il Consiglio Direttivo, organo di governo dell’associazione, sia composto da un rappresentante di ogni comparto. E’ riconosciuto punto di riferimento del settore per le attività di advocacy e sensibilizzazione su interessi e istanze degli operatori italiani del riutilizzo. Dal 2011 a oggi è stata protagonista del dibattito su riutilizzo, preparazione per il riutilizzo e seconda mano.

 

In questo momento di forte sensibilità ambientale, diffusa consapevolezza della necessità di non sprecare risorse naturali, il riuso, non è sostenuto ed incoraggiato? Quali problemi avete nel realizzare le vostre finalità?  A cosa sono dovuti? 

 

Il settore dell’usato italiano consente, senza alcun sostegno economico o facilitazioni di natura fiscale, contributiva o autorizzativa, il Riutilizzo di più di 500.000 tonnellate annue di beni che altrimenti verrebbero smaltiti come rifiuti generando impatti negativi in termini ecologici e sanitari. Ma il potenziale di questo settore in termini di possibile riduzione della produzione del rifiuto è immensamente più grande. Un esempio: se si considerano solo i beni già in buono stato e che non necessitano di interventi di riparazione/restauro/ricondizionamento che oggi entrano nel ciclo dei rifiuti perché conferiti dai cittadini presso i centri di raccolta o posti nei cassonetti dell’indifferenziato sul territorio, altre 600.000 Ton/anno potrebbero essere intercettate e reimmesse in commercio grazie alla preparazione per il riutilizzo. Per attivare questo percorso si attendono dal 2010 (!) i decreti ministeriali attuativi che regolamentino questa procedura e consentano lo sviluppo della filiera. Il Riutilizzo è considerata la leva centrale e prioritaria dell’Economia Circolare e in Italia dà di che vivere a circa 100.000 famiglie. Nonostante questo, salvo alcuni segmenti, ad oggi non esiste la figura dell’operatore dell’usato: non c’è un codice ATECO che ne inquadri l’attività, molte norme alle quali sottostare sono in realtà disegnate su altre figure professionali costringendo oltre il 60% degli operatori all’informalità. Rete ONU ha ispirato ben quattro proposte di legge di riordino del settore che oggi giacciono in Parlamento, in attesa di discussione. A queste carenze si sommano le difficoltà del momento eccezionale di emergenza che stiamo vivendo causa COVID 19. Il DPCM 17 Maggio 2020 sulla gestione della Fase 2 dell’emergenza COVID ipotizzava una competenza dei Comuni nel valutare, quando opportuno, la sospensione della vendita di usato nelle aree pubbliche. Tale provvedimento, già impugnabile di per sé, è stato sovrainterpretato o addirittura frainteso da alcuni Comuni che hanno deciso di vietare tout court la vendita di beni usati nei loro territori. Altri provvedimenti, come quello del Comune di Vicenza, si spingono fino ad escludere dall’insediabilità nel centro storico delle attività dell’usato, con l’obiettivo dichiarato di volerne rilanciare la vocazione artistica e la tradizione locale. Non si tiene conto, però, che sono proprio gli operatori dell’usato a mantenere viva, ad esempio, la cultura materiale del nostro passato.  

 

Quali differenze ci sono tra la vostra filiera di riutilizzo e le filiere di recupero della materia/riciclo? 

 

A livello normativo europeo e italiano, riutilizzo e preparazione per il riutilizzo sono considerate prioritarie nella gerarchia della gestione dei rifiuti, assolvendo al compito di prevenirne la produzione. Questo perchè consentono di allungare il ciclo di vita di un prodotto evitando il consumo di risorse naturali come l’acqua, l’energia, necessarie invece non solo nella produzione di nuovi prodotti ma anche nei processi industriali di riciclo. Un altro elemento di differenza è che le attività di riutilizzo e preparazione per il riutilizzo sono labor intensive, ovvero impiegano più lavoratori dei processi industriali per il recupero di materia o per il loro smaltimento. Un’ indagine di Microsoft di qualche tempo fa calcolava il numero di persone necessarie per la gestione di 1.000 tonnellate di RAEE: per smaltirle 1 persona; per riciclarle 15 persone; per riutilizzarle 200 persone. Un elemento essenziale di differenza è poi legato alla strutturazione dei consorzi di filiera. 

Il sistema CONAI ha consentito, con il contributo dei produttori, lo sviluppo delle raccolte differenziate, raggiungendo il grande pubblico con un’attività di comunicazione costante e a partire dagli anni ’90. Nel settore del riutilizzo sono assenti strumenti equivalenti. E stiamo scontando decenni di ritardi. 

 

Quali provvedimenti chiedete al legislatore ed alle amministrazioni pubbliche?

 

Come illustrato nell’Audizione del 01.04.2019 alle Commissioni congiunte VIII e X della Camera dei Deputati, Rete ONU chiede innanzitutto una produzione normativa che regolamenti il settore dell’usato e consenta ad ogni operatore di svolgere la propria attività in modo codificato (mediante codici ATECO dedicati, ulteriori rispetto a quelli esistenti), formale e con oneri complessivi (tasse, tariffe..) che tengano conto del valore esiguo dei beni gestiti e della maggiore incidenza dei costi operativi rispetto ai ricavi. I soggetti vulnerabili che oggi operano nell’informalità possono essere ricondotti a uno status pienamente legittimo, controllato e non confondibile con le economie criminali grazie a una politica di emersione che abbassi le barriere d’accesso economiche all’inizio e allo svolgimento dell’attività. Devono essere emanati i Decreti ministeriali annunciati già per il 2010 dall’articolo 180 – bis della 152/06 (articolo oggi soppresso) assicurandosi che le procedure descritte siano sostenibili e che sia Centri di Riuso che Impianti di Preparazione per il riutilizzo possano disporre dell’intera gamma di merceologie dell’usato per non vedere minacciati i loro punti di equilibrio (che dipendono dalla qualità e assortimento globale dei flussi). 

 

Sarà inoltre determinante l’istituzione di regimi di responsabilità estesa del produttore che garantiscano la sostenibilità della filiera e che siano gestiti da una regia democratica che includa i principali portatori d’interesse (gli operatori dell’usato) assieme ai produttori e agli stakeholder istituzionali. Esistono, in questo senso, da oltre dieci anni esempi virtuosi in Europa che hanno consentito agli operatori del riutilizzo di sviluppare una rete impiantistica adeguata al fabbisogno nazionale e di raggiungere l’equilibrio economico delle proprie attività grazie anche al contributo dei produttori. In ultimo, le risorse del Recovery Fund sono l’occasione attesa dal settore per poter liberare tutte le proprie potenzialità e dotare l’Italia di una rete impiantistica moderna e destinare investimenti ad accompagnare l’emersione dall’informalità di una parte consistente degli operatori, oltre a contribuire al raggiungimento degli obiettivi europei in termini di riutilizzo e preparazione per il riutilizzo, attribuendo premialità a quelle attività votate alla riduzione della produzione di rifiuti.

 

Sono provvedimenti urgenti? Quanto potete aspettare?

 

Lo stop forzato dovuto all’emergenza sanitaria da COVID 19 ha mostrato tutte le fragilità dovute alla natura del settore che conta sul contatto con il grande pubblico per sostenere la commercializzazione dei prodotti riutilizzabili. 

Un esempio su tutti quella della filiera del tessile e dell’abbigliamento usato: nella prima fase dell’emergenza, l’impiantistica di preparazione per il riutilizzo in Italia e all’estero ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di reimmettere sul mercato i rifiuti trattati a causa della chiusura dei mercati di sbocco sia al dettaglio che all’ingrosso che, a cascata ha avuto ripercussioni sugli impianti di stoccaggio che accolgono i rifiuti frutto della raccolta differenziata di indumenti usati derivanti dalle raccolte differenziate stradali dai cosiddetti cassonetti gialli. In molti casi gli operatori della raccolta sono stati quindi costretti a chiedere ai cittadini di rinviare il proprio cambio di stagioni e sospendere la raccolta. La lenta riapertura dei mercati di sbocco e l’abbondanza di offerta rispetto alla domanda ha generato un calo del prezzo di vendita che sta mettendo in seria difficoltà tutta la filiera che rende sempre più urgente intervenire su altro aspetto: le gare al massimo rialzo delle stazioni appaltanti per l’affidamento del servizio di raccolta, trasporto e valorizzazione, sia degli indumenti usati che degli altri beni durevoli. Per il futuro bisognerà puntare piuttosto sulla qualità del servizio e, laddove si voglia favorire l’economia solidale, sulla misurazione puntuale degli effetti sociali ottenuti.   

 

 

Ci sono differenze tra regioni e realtà? Ci sono casi virtuosi?

 

Le esperienze virtuose sono indubbiamente quelle che vengono dal fronte del sostegno all’ambulantato debole e alla sua regolamentazione. Apripista in questo l’esperienza del Comune di Torino, che più di 20 anni fa ha istituito la prima ‘Area di libero scambio’ in Italia, dando vita ad un processo aggregativo degli operatori dell’usato esistenti e oggi raccolti nell’Associazione Vivibalon. Dallo scambio tra l’associazione e Presidente della Prima Circoscrizione di Palermo, Massimo Castiglia e gli operatori del mercato storico di ‘Ballarò’ è nato oggi un esperimento sociale che conta la presenza di 300 stalli – di cui il 95% da assegnare ai venditori per bisogno abituali e il restante 5% riservato ai soggetti diversi con lo scopo di riorganizzare il mercato quotidiano e dare una risposta concreta al bisogno occupazionale di centinaia di famiglie in un contesto sociale complesso.

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di Riccardo Marchesi

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